Ho conosciuto Barbara nel 2011, quando lavoravo in comunità. Descriverla e descrivere quello che era con me, con i colleghi, con gli utenti non credo sia possibile.
Lavorare con lei era bello, perché era pervasa da una grande passione, che ha sempre messo in tutto quello che faceva. Si impegnava molto in ogni progetto, in ogni conversazione. Era determinata a fare le cose sempre fatte al meglio, ma aveva anche una grande umanità, una grandissima predisposizione all’ascolto. Con utenti e colleghi sfoderava un sorriso meraviglioso, ma era capace anche di fulminare tutti con sguardi truci che freddavano all’istante. Quando l’ho conosciuta era educatrice, ma si occupava anche di prevenzione. Era appassionata di fotografia e con uno sguardo particolare sull’universo femminile. In questi anni ha continuato a nutrire se stessa e i suoi interessi, fino al punto che ora definirla ufficialmente una fotografa è diventato riduttivo. Vi presento Barbara Pasquariello.
Ciao Barbara, è da tempo che non lavori più in comunità… di cosa ti occupi adesso?
Cara Elena, come sai non è stata una decisione facile e indolore quella di lasciare, nel 2016, il mio storico lavoro di educatrice. Diciotto anni di impegno quotidiano nell’ambito della relazione d’aiuto lasciano orme importanti, ma è stata una scelta necessaria, guidata da diverse urgenze, prima fra tutte il bisogno di recuperare un po’ di forze ed energie per me stessa. Dopo due anni di totale spaesamento, durante i quali ho partecipato ad alcuni progetti fotografici e ad un progetto teatrale, ha iniziato a prendere forma dentro di me l’idea che le formazioni, le passioni e gli interessi coltivati in tutti questi anni potevano forse confluire in “un nuovo lavoro” a tutti gli effetti.
Come sai, fotografare è sempre stato un linguaggio importante per me, un codificatore di emozioni e vissuti, un modo per raccontare e liberare storie. Anche la scrittura creativa poetica è un altro strumento della mia personale cassetta degli attrezzi, tanto che, sempre dal 2016, sono Insegnante Certificata del Metodo Caviardage®.
E così, con mille dubbi e paure, quasi tre anni fa, a 47 anni, ho aperto la partita iva come Freelance e da allora mi occupo a tempo pieno di fotografia, di comunicazione e organizzazione di eventi formativi. Mi fa sempre uno strano effetto pronunciare questa definizione del mio “sé professionale” perché sono sempre stata un po’ allergica alle etichette… così come alle diagnosi quando lavoravo nell’ambito della salute mentale.
Diciamo quindi che la fotografia è il filo conduttore di tutte le attività di cui mi occupo, dai laboratori e workshop ai progetti fotografici ad azione sociale per imprese del terzo settore, oltre a docenze e consulenze in cui utilizzo le immagini come strumento di mediazione e comunicazione con gruppi di lavoro o utenze specifiche.
Perché hai scelto la fotografia?
Non credo sia stata una vera e propria scelta perché, da che ricordo, ho sempre avuto uno stile di pensiero per immagini, e ho sempre fotografato, quindi la fotografia è un medium che mi è familiare. Le fotografie fanno vibrare le mie corde più profonde. In generale il lavoro con le immagini, mi fa sentire bene, mi permette di essere all’interno di un processo di auto esplorazione continua.
Cos’è per te la fotografia?
È il mondo dentro il quale mi riconosco. È un modo per comunicare, per documentare, per creare ponti, oltre ad essere un’arte che mi dà nutrimento all’anima e alla mente.
Per me la fotografia è una forma di libertà, principalmente perché permette di dare vita a immagini interne e di elaborare pensieri.
È un alibi per essere presenti nelle situazioni, in risposta a un interesse o ad un’urgenza di approfondire, conoscere e anche reinterpretare ciò che ci circonda. È entrare in relazione. Ma è anche un pretesto per essere presenti a sé stessi, ed è qui che la fotografia da pretesto può diventare un mezzo, sociale e anche terapeutico, soprattutto in momenti molto difficili della vita, per ritrovare un po’ di sollievo.
Quando la fotografia diventa terapeutica?
Judy Weiser, psicologa e arteterapeuta canadese ideatrice delle PhotoTherapy Techniques, definisce la fotografia terapeutica come l’insieme di tutti quegli interventi o pratiche fotografiche per incrementare la propria consapevolezza e conoscenza di sé, per attivare un cambiamento sociale positivo, per migliorare le relazioni, per dare voce ed elaborare traumi o malattie, per facilitare processi di guarigione. Questi interventi possono essere messi in atto autonomamente dalle persone che quindi sviluppano un percorso molto intimo e personale di ricerca attraverso il mezzo fotografico, o mediati da professionisti, non necessariamente terapeuti, in grado di coordinare e accompagnare il processo. La fotografia terapeutica è quindi l’utilizzo della foto “come” terapia.
La Fototerapia consiste invece nell’utilizzo della fotografia “nella” terapia, quindi nella diretta relazione terapeuta-paziente, in un setting clinico. Le tecniche di Fototerapia consentono un allentamento delle difese permettendo al linguaggio inconscio, simbolico e metaforico, di emergere.
Va però detto che oggi c’è una grande confusione sulle definizioni di Fototerapia e Fotografia Terapeutica e ancor di più sull’uso della parola terapia. Con la nascita di NetFo, stiamo da anni cercando di fare un po’ di chiarezza su questi delicati argomenti e a breve uscirà un nostro articolo, per aprire una riflessione con altri professionisti del settore su queste definizioni, nella speranza di trovare, prima o poi, un lessico comune.
Nell’epoca dei selfie la fotografia che ruolo ricopre?
Il fenomeno del “Selfie” costituisce uno strumento espressivo molto efficace che permette di scegliere e di proporre un aspetto specifico di sé, rendendolo immediatamente visibile e condivisibile con un pubblico di amici e followers.
Un tempo lo scatto fotografico era un gesto centellinato, pensato. Oggi molto spesso accade di fotografare prima di osservare, di mostrare prima di guardare. Per tutti noi, adulti, bambini, ragazzi, professionisti dell’immagine, fotografi o videomaker è sempre più urgente fermarsi a pensare a ciò che ci sta accadendo.
Il fenomeno dei Social contestualmente all’avvento dello Smartphone ci ha resi tutti potenziali fotografi e videomaker di ogni istante della vita.
Viviamo immersi in un continuo rumore di fondo fatto di immagini, prodotte, inviate, ricevute, che affollano il nostro sguardo e i nostri supporti digitali, ma che sempre meno vengono riflettute, gustate, rese pensiero, rese memoria. I dati sul movimento delle immagini sui social sono impressionanti. Leggevo recentemente che su WhatsApp vengono condivise 4,5 miliardi di foto ogni giorno, su Instagram 3600 foto al secondo solo in Italia… e sono dati del 2017 quindi non aggiornatissimi! È un flusso continuo quello che ci accompagna nel quotidiano, che in maniera sottile interferisce con le nostre percezioni visive e che ha completamente trasformato il nostro modo di comunicare con noi stessi e con l’altro da noi. Credo che quello che manca oggi è il fermarsi sulle immagini e sui significati di cui esse sono portatrici e prendersi quel tempo necessario per costruire memoria. Le fotografie ci dicono molto di noi e della direzione in cui stiamo andando.
Pensi che i fotografi possano avere una responsabilità sociale nell’epoca dei social network?
Come ti dicevo poco fa, siamo in un’epoca in cui vi è un enorme utilizzo dell’immagine fotografica, fenomeno accentuato e accelerato dai social network. Non credo che ci sia ancora una completa consapevolezza del reale potenziale, e anche rischio, della rete. Le immagini oggi hanno un “peso” maggiore rispetto ai contenuti del messaggio che si vuole diffondere, a volte questo può creare ambiguità e contraddizioni, generando possibili falsi modelli sociali. È dovere di ognuno, e non solo dei fotografi, contribuire a creare una vera e propria cultura ed etica dell’immagine, con un occhio sempre attento ai fruitori finali, che spesso sono giovani o giovanissimi.
Recentemente ho realizzato, insieme a un collega videomaker e a un avvocato, un progetto di “Educazione all’immagine” all’interno di una scuola media di Carpi, in provincia di Modena, con l’obiettivo di far sperimentare ai ragazzi il linguaggio fotografico e la comunicazione sui social, in maniera consapevole e protetta promuovendo senso critico e riflessioni sui possibili rischi della navigazione in rete. Questo progetto è stato promosso da CoopAttiva, una cooperativa sociale di Modena con cui collaboro da tempo.
Cos’è NetFo?
NetFo è un Network italiano di Fototerapia, Fotografia Terapeutica e Fotografia ad azione sociale di cui sono co-fondatrice (www.networkitalianofototerapia.it). Siamo un gruppo dinamico di sei professionisti con differenti formazioni ed esperienze, che si è costituito nel 2014 come naturale evoluzione degli incontri professionali e umani maturati negli anni all’interno del Perugia Social Photo Fest, festival internazionale di Fotografia Terapeutica e Fotografia Sociale. In poco tempo siamo diventati una realtà estremamente attiva e un punto di riferimento in ambito formativo a livello nazionale con l’obiettivo principale di diffondere l’utilizzo del medium fotografico come strumento terapeutico e di azione sociale, tra i professionisti della relazione di aiuto. Il nostro fiore all’occhiello è il “Corso annuale in Fototerapia e Fotografia Terapeutica” di cui è appena iniziata la quarta edizione. Abbiamo attivato questo percorso ad Assisi nel 2017 e dal 2019 ci siamo trasferiti a Roma. Sono inoltre felice di annunciarti che sta per uscire il secondo numero di “Ne.Mo”, la nostra rivista on line che vuole essere un promemoria, un contenitore in cui differenti esperienze e progettualità possano confluire, incontrarsi ed intrecciarsi, come contributo concreto alla diffusione della cultura fotografica in ambito clinico, sociale e di comunità. Questo è il link per scaricare gratuitamente la rivista: www.networkitalianofototerapia.it/ne-mo/
Continui i progetti dedicati alle donne?
Come ben sai, le tematiche relative all’identità di genere e al contrato della violenza sulle donne sono sempre state una mia priorità. Da quando non lavoro più in comunità ho iniziato a prestare servizio come volontaria alla Casa delle Donne – Centro antiviolenza di Modena, dove mi occupo di prima accoglienza. Ho inoltre fatto recentemente un intervento, come docente, in un progetto presso il Centro per le Pari Opportunità di Perugia promosso e organizzato dall’Associazione LuceGrigia.
Da un punto di vista fotografico, tre anni fa ho partecipato ad un progetto antropologico sulle donne shamane, in India. Insieme ad un meraviglioso gruppo di donne e a Mother India School, che ha sede a Goa, abbiamo realizzato un reportage fotografico nel Karnataka in occasione del festival dedicato a Yellamma, Dea madre della fertilità e dei diversi. Un evento dedicato al femminile che ha richiamato migliaia di indiani, pellegrini devoti, shamane, devadasi, eunuchi, transessuali, nelle valli sacre di Saundatti. È stata un’esperienza potentissima, dalla quale è stato faticoso “tornare”.
Da questo reportage è nata la mostra collettiva fotografica “India – Rituali e guarigioni”, inaugurata nell’ottobre del 2018 presso la Certosa di Calci, in provincia di Pisa.
Qual’è la tua caratteristica personale che ti rende unica in quello che fai?
È una domanda difficile questa, non credo di avere una risposta. Posso però dirti che in questo momento particolare e faticoso della mia vita ho scelto di fare solo cose di senso, in cui credo fermamente, che mi appassionano, che mi restituiscono respiro. E con questa “filosofia” sono sicura di fare quello che faccio con assoluta serietà, coerenza e passione.
Il progetto di cui vai più fiera è…
L’esperienza in India e la successiva collettiva fotografica è stata particolarmente significativa e trasformativa per me. È cambiato il mio modo di fotografare, di entrare nelle situazioni che mi trovo ad osservare, vivere, documentare, con mia grande sorpresa e soddisfazione.
Ma il primo amore non si scorda mai e nel mio cuore rimane sempre vivo il mio primo progetto fotografico “Corpi Ri-Scattati”, che ho coordinato e realizzato nel 2011, anche grazie al tuo aiuto, con un gruppo di donne tossicodipendenti in comorbilità con disturbi del comportamento alimentare, ospiti nella comunità terapeutica L.A.G. in cui lavoravo.
Hai progetti in cantiere?
Se intendi progetti fotografici sì, alcuni in progress e altri “chiusi in un cassetto”. Non so se questi ultimi spiccheranno mai il volo, ma indipendentemente da questo, sono estremamente preziosi per me perché rappresentano un dialogo con me stessa, silenzioso e continuo. Una narrazione in forma di diario.
Sono custoditi e protetti perché parlano della mia storia, che forse non è ancora pronta per essere liberata.
In questo momento sto frequentando un intenso e travolgente percorso – Isozero2 Lab – col fotografo Efrem Raimondi e con lui e l’intero gruppo stiamo realizzando differenti progetti fotografici personali, che confluiranno in una possibile pubblicazione finale.
Cosa non può mai mancare tra la tua attrezzatura?
Il cellulare per prendere velocemente appunti visivi su ciò che mi circonda, matita e taccuino e ovviamente una fotocamera.
E purtroppo, da poco tempo, anche gli occhiali da vista non possono più mancare tra la mia attrezzatura!
Hai una musa a cui ispirarti?
Ci sono fotografe che amo particolarmente.
Sarah Moon per la potenza narrativa delle sue foto e per la manipolazione del colore; Nan Goldin per l’istintiva e profonda intensità di entrare nelle situazioni, senza mediazioni o filtri.
Moira Ricci mi intriga per la geniale tecnica del PhotoCollage, per il suo “inserirsi” in vecchie foto dell’album di famiglia, al fianco della madre scomparsa. È un modo per creare un ponte tra il passato, il suo presente, le sue origini.
In realtà ne amo tante altre ma la vera musa è la mia storia: quella chiusa nel cassetto. Uno spazio generativo dove nutrirmi con ciò che sopravvive alla perdita.

Beatrice
Marzo 9, 2020Conosco Barbara personalmente e’ stata mia docente al corso Netfo! Brava Barbara!! Persona stupenda!
Elena Manzini
Marzo 10, 2020Pienamente d’accordo, una donna magnifica! Grazie per il tuo contributo Beatrice 🙂